Sono completamente solo. In giro su questa montagna non c’è anima viva. Regna un silenzio irreale, totale, forse mai avvertito così prima. O forse, visto il luogo, questa volta ci sto facendo davvero caso. Perché poco più di cento anni fa in quello stesso punto in cui mi trovo ora sarei già morto, freddato da un cecchino o da una granata.


Il cielo sopra la mia testa è scuro e pesante, quasi irreale, quasi una lastra di cemento, schiaccia l’orizzonte infondendo un senso di oppressione. Sono in montagna, circondato da splendide vette e valli, quello che considero il mio paradiso ideale, ma sono inquieto. Mi muovo percorrendo trincee e gallerie, finendo dentro a crateri di bombe e a pezzi di montagna rivoltati dalle mine.
Tra i sassi è pieno di filo spinato, frammenti di metallo e di proiettili, di suole di scarpe. Di targhe commemorative e croci.

Mi fermo presso una di queste che ricorda che sotto di me l’esplosione di una mina ha seppellito decine di soldati. Trovo un paio di ossa, uno sembra essere di animale ma l’altro no. So che ritrovamenti di resti umani su queste montagne non sono poi rari. Non importa stabilire si chi o cosa siano, le seppellisco entrambe sotto dei sassi, con un senso di pietas che mi assale fino alla commozione. Me ne vado ringraziando il cielo di non essere nato cent’anni prima, e quel cielo prima pesante finalmente inizia ad aprirsi. Arriva il sole, la montagna ritrova colore… Quella montagna su cui sono morti migliaia di giovani come me. Dei motivi di quella guerra ne sapevano poco o niente. Col sole si rompe anche il silenzio; la montagna torna familiare e accogliente.

Giro l’angolo e sono circondato da un gregge di capre e pecore belanti. Come soldati in formazione salgono i pendii una volta bagnati di sangue di giovani europei. Sono loro ormai, in disordinate schiere al pascolo, le nuove padrone delle trincee del Pasubio.

Monte Pasubio, Veneto/Trentino, teatro di combattimenti nella Prima Guerra Mondiale.
Settembre di qualche anno fa.
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